Intervista a Giuseppe Scaglione, autore del romanzo noir “La figlia”
Oggi Madeinmurgia ha intervistato Giuseppe Scaglione, direttore di Banca, ma anche uomo di grande cultura. Scrittore di un romanzo noir ” La figlia”.
Vi invitiamo a leggere i suoi interventi sul blog: ” Correlazioni- Arte & Cultura.
D – Chi è Giuseppe Scaglione?
R – Un appassionato d’arte a cui piace scrivere, da indipendente. Ho iniziato giovanissimo a scrivere recensioni per giornali e riviste, però mai alle dirette dipendenze di una testata. Nessun vincolo. Né riesco a “pensare” l’arte, la cultura in genere, come una attività da cui trarre profitto. Nessuna remora morale, in questo. Anzi ho grande rispetto e considerazione per i “professionisti” della cultura. Semplicemente non sono io capace di viverla come mestiere, tutto qui. Infatti come attività professionale ho iniziato altrettanto presto a lavorare in banca. Questa indipendenza mi ha permesso di trattare, nelle recensioni, nei cataloghi, nelle presentazioni e da curatore, soltanto artisti e temi che in qualche modo mi attraevano, ed è ancora oggi così. Molti in questo campo si rifanno ad una “figura guida”. Per me lo è stata Palma Bucarelli, per decenni direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma che sotto la sua guida superò la funzione museale per assumere un ruolo propulsivo proprio negli anni del massimo fermento artistico italiano. E contribuì a fare di Roma un crocevia della cultura europea. Si deve a lei l’introduzione dell’arte contemporanea non solo nella Galleria ma anche nel “salotto buono” dei ceti intellettuali. Affascinato dal suo lucidissimo pensiero sull’arte contemporanea, questa è diventata la mia vera passione. Negli anni settanta e ottanta la concettuale, o l’arte povera, per esempio. E così via.
D – Lei ha pubblicato un romanzo noir, “La figlia”, come è nato questo progetto?
Premesso che sono sempre stato un assiduo lettore di narrativa, da qualche anno ho iniziato a presentare romanzi di amici scrittori. Da qui a recensire libri il passo è breve e successivamente è altrettanto breve quello verso la scrittura. Ma una scrittura diversa dalle recensioni. Molto più asciutta e snella, com’è nella narrativa che prediligo, quella nordamericana. Mentre dal punto di vista dei contenuti l’idea era di valorizzare l’intima conoscenza umana e sociale della nuova realtà provinciale, maturata in vent’anni da direttore di banca in diversi comuni del barese. Il progetto era trattarne le zone d’ombra, descrivendo con scenari realistici le nuove declinazioni esistenziali della società postmoderna al dissolversi del modello solidaristico di comunità contadina. La trama noir, inoltre, permette di trattare più a fondo le storture e le contraddizioni. Omesse dalla stereotipata narrazione di una “apulia felix” a cui ci ha abituati, per esempio, la propaganda di regime. Una crisi profonda di valori umani, sociali ed economici che non tutti siamo disposti ad ammettere. Mi ha fatto molto piacere che critici letterari come Alessandro Vergari abbiano apprezzato e sottolineato questo. Oppure, come Martino Ciano, abbiano ricollegato il romanzo ad una “tradizione pirandelliana” che vuole la letteratura tesa a scandagliare impietosamente la società.
D – Quanto sono centrali, in questo romanzo, le problematiche dei paesi murgiani?
R – Come è stato osservato dalla critica, il territorio è trattato nel romanzo in modo da poter essere assunto come archetipo di tutta la provincia italiana. Perché è questa ad aver attraversato da nord a sud, molto più delle aree metropolitane ed industriali, il declino dei vecchi valori e la difficoltà a ricercarne di nuovi, nel passaggio da un modello di società agricola ad uno basato sulla piccola impresa e sul terziario per arrivare oggi al modello postmoderno o “liquido”, per dirla con Bauman. L’accelerazione di queste trasformazioni, e delle contraddizioni che generano, nel contesto dell’area murgiana è maggiore che altrove perché si concentrano in un arco temporale più breve e questo permette una lettura più puntuale dei mood esistenziali. Soprattutto appaiono più evidenti le difficoltà. Diventa un paradigma della provincia. Però non bisogna confondere la provincia con il concetto di provincialismo, che non è appannaggio del sud. Proprio qualche giorno fa recensendo sul mio blog l’ultimo romanzo di Gabriella Genisi, “Dopo tanta nebbia”, ambientato in parte a Padova, scrivevo del nordest che, ad onta del proverbiale ma ormai declinante progresso economico, contiene in realtà i germi di un provincialismo tra i più chiusi e riottosi del Paese.
D – Perché, in un mondo dove l’arte veniva già considerata morta da Hegel e dove un numero sempre più grande di critici continuano a dichiarare che l’arte non abbia più alcuna possibilità di incidere sulla realtà, ha scelto di dedicare la sua vita all’arte?
R – Domanda estremamente complessa che richiederebbe una lunga trattazione sulla premessa hegeliana, per una risposta esaustiva. Provo però a sintetizzare, per quanto possibile, quindi mi scuso per l’inevitabile approssimazione. Allora, intanto Hegel si riferiva all’opera d’arte in senso estetico. In questo senso opponendo il proprio pensiero da un lato a Kant e dall’altro a Baumgarten. Ed è evidente in larga parte del pensiero ottocentesco la stanchezza verso l’arte didascalica, celebrativa o illustrativa del potere del principe o della chiesa, della bellezza, della santità, dell’eroismo eccetera. Per Hegel “l’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto il battesimo di spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito”. In questo senso l’arte è essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia, universale e particolare, infinito e finito, pensiero e sensibilità: essa è un prodotto dello spirito con il quale questo dà vita a una prima forma di “conciliazione tra ciò che è semplicemente esterno, sensibile e transeunte, ed il puro pensiero, tra la natura e la realtà finita e l’infinita libertà del pensiero concettuale”.
Per questo motivo molto spesso, quando mi si chiede un suggerimento di lettura per approcciarsi all’arte contemporanea, comprenderne i profili, indico due libri. Che non trattano direttamente di arte o di storia dell’arte. Uno è Fenomenologia dello spirito, appunto di Hegel, e l’altro è il Trattato di semiotica generale, di Umberto Eco.
Comunque poi il Novecento ha segnato una svolta, non solo nella storia. Da Platone agli Illuministi l’umanità aveva abbandonato la dimensione del Mito per eleggere al centro dell’attenzione l’idea. La ragione. Ogni tentativo di spiegare l’inspiegabile era demandato al soprannaturale. Alla religiosità, laica o confessionale non importa. Come tale oggetto di fede e di culto, oppure di agnosticismo. Il secolo scorso recupera invece questa dimensione che va oltre il razionale ed affida all’arte il compito di sostituire l’immagine con la visione, generando le avanguardie storiche. Per ricercare nella visione le verità che l’immagine non può raccontare. Nella dimensione contemporanea della visione, l’opera d’arte si apprezza per un valore ontologico. Il messaggio che esprime. Le verità che contiene. Per accogliere questo messaggio e questa verità bisogna conoscere il codice comunicativo usato dall’artista ed incrociarlo col proprio. Figurativo, astratto, informale, materico, concettuale, installatorio, scultoreo eccetera. Da questa reazione interpretativa si stabilisce una correlazione tra l’artista, l’opera ed il fruitore. Allo stesso modo si possono incrociare i codici comunicativi dell’arte con quelli della musica e della scrittura.
In questo risiede il ruolo del critico e le ragioni della mia scelta. Lavorare sulle correlazioni, non a caso il mio blog si chiama appunto “Correlazioni – Arte & Cultura”. C’è spesso confusione tra critico d’arte, storico dell’arte, curatore d’arte e mercante d’arte. Troppo spesso alcuni di questi ruoli si assommano nella stessa persona. È senz’altro una anomalia italiana, in parte europea. L’altra anomalia è che nel nostro immaginario il critico ha la toga nera del professore universitario di storia dell’arte, nell’immaginario anglosassone il camice bianco dello psicanalista. Più semplicemente penso che il critico sia un “media”, come ogni altro giornalista insomma, che mette in correlazione i codici comunicativi dell’arte con le reazioni interpretative dei fruitori. Resta il fatto che per fare questo bisogna conoscere e studiare, beninteso.
D – Quali sono i suoi progetti futuri?
R – Devo dire che “La figlia” ha in qualche modo cambiato i miei progetti, che fino a qualche tempo fa erano concentrati sull’arte. Scrivendo il manoscritto pensavo che la “figlia” restasse figlia unica. Ma devo candidamente, e umanamente, ammettere che i giudizi dei lettori e l’ottima accoglienza della critica, e qui vorrei anche citare il poeta e critico Nicola Vacca (vincitore del Premio Camaiore 2016) che su “Liberi di scrivere” lo ha definito un “noir perfetto”, mi spingono a continuare a cimentarmi nella narrativa. Ho iniziato un manoscritto che tratta delle tensioni generazionali nella società e nella famiglia. Poi ho in mente un romanzo che, sfruttando come ho fatto con “La figlia” le ampie possibilità di denuncia sociale offerte dal genere noir, tratti gli aspetti più oscuri del sistema bancario italiano. La cronaca offre molti spunti su questo tema. Ma, a differenza della cronaca, la narrativa rende una più ampia libertà di espressione fino a diventare paradossalmente più vera della cronaca stessa.
di: Antonietta Loviglio